Giovani e Shoah, non tutti la conoscono. Non è certo un dato nuovo, periodicamente negli anni infatti sono stati fatti sondaggi che hanno evidenziato la diffusa ignoranza – tra i giovani in generale e soprattutto i nativi digitali – sulla storia del Novecento, sulla Seconda Guerra Mondiale, sui crimini compiuti dai nazisti.
Nel suo libro, Ariela Piattelli, si affronta in maniera approfondita questo tema?
L’impoverimento culturale è sicuramente una causa della scarsa conoscenza che molti ragazzi hanno della storia della Shoah. Non conoscere significa essere più vulnerabili ed esposti alle fake news, alle distorsioni e anche a contenuti negazionisti, che grazie ai social network raggiungono con grande facilità gli utenti. Però nel libro ci sono anche molte voci che danno tanta speranza: dei giovani, nipoti di sopravvissuti e giovani GenZ che hanno incontrato la memoria della Shoah nel loro cammino: ragazzi molto consapevoli che definisco “custodi creativi della memoria”, tutti impegnati a perpetuare la lezione della storia, battendosi, ognuno a suo modo, contro ogni forma di antisemitismo. Poi ci sono i testimoni, le loro voci nel libro, quelle di Sami Modiano, Liliana Segre, Edith Bruck e delle sorelle Bucci, indicano la strada possibile del futuro della memoria.
Tra le motivazioni del volume c’è la preoccupazione dovuta alla scomparsa della generazione dei testimoni oculari, di quanti cioè hanno vissuto l’orrore dei campi di sterminio. Cosa si può fare per trasmettere la memoria ai giovani di oggi?
L’epoca della testimonianza diretta volge al termine, è un dato di fatto, molto triste, ma inevitabile. Sono i giovani a spiegarci nel libro, insieme ai testimoni, come trasmettere la memoria e proiettarla al futuro. Non c’è nulla che potrà mai sostituire la testimonianza viva, diretta, dei testimoni e la loro progressiva scomparsa ci spinge ad interrogarci, ancora una volta, su come la memoria della Shoah vada trasmessa attraverso i nuovi linguaggi e tutti gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione. La generazione Z è l’ultima ad aver ascoltato i racconti dei testimoni, nel libro è descritto questo “ultimo incontro”, attraverso i racconti dei nipoti. Sono i ragazzi ad insegnarci la cosa più importante, che la testimonianza resta l’elemento più potente e insostituibile per educare e divulgare, ma questa può essere veicolata attraverso i nuovi linguaggi. Nel libro si osservano le esperienze di giovani e sopravvissuti sui social network per esempio, si tratta di casi molto interessanti e “virtuosi”, che possono risultare anche sorprendenti, vista la scarsa fiducia che spesso gli adulti ripongono nei social media.
L’eliminazione sistematica di milioni di ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale è un fatto storico. Hanno funzionato le campagne di sensibilizzazioni nelle scuole e i viaggi ai lager svolti in tutti questi anni? Si è seminato tanto, insomma, qualcosa si è raccolto?
Quest’anno il 27 gennaio segna gli ottant’anni dalla fine del lager di Auschwitz. Il fatto che si sia svolto un poderoso lavoro sulla memoria non significa che questo sia stato sempre efficace. Con la legge del 2000 sulla Memoria è cambiato molto in Italia: con i viaggi didattici nei campi di sterminio, gli eventi, i percorsi formativi, le celebrazioni del giorno della memoria, è stato fatto molto. Dobbiamo però interrogarci su cosa restituiscono i ragazzi di questa memoria. Dal pogrom del 7 ottobre in Israele, viviamo una drammatica ondata di antisemitismo, in Europa e anche in Italia, con episodi drammatici che si verificano online e anche offline. I giovani purtroppo partecipano a volte a queste derive, per questo, come spiega nel libro il pronipote della sopravvissuta alla Shoah Lily Ebert, Dov Forman, dobbiamo essere presenti dove lo sono i giovani per raccontare loro la verità, anche sui social media, anche su TikTok.
Ci sono esempi di ragazzi della generazione Z che attivamente si stanno impegnando per far conoscere ai propri compagni la tragedia della Shoah?
Sì e sono le esperienze che raccontiamo. Sono le storie che ci danno speranza. C’è Pio, uno studente che ha fatto il viaggio della memoria ed ha incontrato Sami Modiano: quell’incontro per lui è stato uno spartiacque della vita, e adesso il ragazzo si batte contro l’antisemitismo nello sport. C’è Gabriel, il nipote del sopravvissuto Shlomo Venezia, che restituisce la memoria attraverso lo studio e la divulgazione della Storia. C’è il giovanissimo Cristian, un ragazzino di 14 anni che dopo l’incontro con Edith Bruck ha deciso di farsi voce della testimonianza, facendo documentari e interviste che diffonde sui social e sulle piattaforme. Tra gli altri c’è anche Tommaso, nipote del medico Adriano Ossicini, noto per la storia dell’invenzione del “Morbo di K” con cui ha messo in salvo alcuni ebrei nella Roma occupata dai nazisti. Ecco, Tommaso ha imparato da suo nonno come sia necessario essere sempre dalla parte giusta, anche quando questa è impopolare…
“Non dimenticare” è quello che chiederebbero i sopravvissuti alla Shoah. Ci sono altre attività che possono aiutare a trasmettere la memoria di quei tragici fatti alle nuove generazioni?
In Italia ci sono molte attività, alcune si trovano nel libro. La cosa più importante è l’impegno dei singoli e, nel caso degli studenti, la preparazione degli insegnanti, che non sempre è adeguata. In alcuni casi si crede che basti far vedere un film ai ragazzi durante il giorno della memoria per renderli partecipi e consapevoli di ciò che è stato. Ma prima della memoria c’è lo studio della storia. Dunque la conoscenza dei fatti è alla base di tutto, anche del senso critico, solo con attraverso la conoscenza possiamo trasmettere ai giovani la verità. È con essa, assieme allo studio e alla creatività dei ragazzi, che è possibile dare un futuro alla memoria. Sono gli stessi testimoni a spiegarcelo.
Roberto Arduini